Ultimo Urlo - Inviato da: Panzerfaust - Sabato, 02 Gennaio 2010 15:56
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Fulmine - la storia

 .: Btg. Fulmine - La storia nel diario di un reduce

 

MEMORIA DI UN REDUCE SULLA SUA APPARTENENZA AL BTG. FULMINE
(REDATTA NEL SETTEMBRE 1949)

Mi arruolai nel Fulmine alla fine di Luglio del 1944. Come primo impiego iniziammo il rastrellamento di tutta la Valle dell'Orco. Credevamo di trovare molti reparti antirepubblicani, invece l'operazione si ridusse ad una lunga marcia fatta a tappe lungo tutta la magnifica valle che da Cuorgnè (Torino) arriva fino a Chiaverano, presso il confine francese. Di partigiani nemmeno l'ombra. O non c'erano, oppure, come era loro buon costume, evitavano il combattimento. Solo qualche breve scaramuccia. Un mio camerata in una di queste ebbe l'elmetto bucato da una pallottola, fu un miracolo se rimase illeso. Alpette: fu la nostra prima meta. Sparone: dopo la sosta di una notte proseguimmo per Sparone. Raggiungemmo poi Locana, Noasca, Cerasole Reale. A Cerasole Reale, la grande diga che alimenta il fiume Orco, da quale prende il nome la valle, è imponente. Voci allarmistiche, quando eravamo ancora a Locana, dicevano che i partigiani l'avrebbero fatta saltare compromettendo così l'intera valle. Difatti la diga regge un grande lago lungo oltre due chilometri, largo circa ottocento metri, profondo circa ottanta. Seppi poi da uno degli ingegneri addetti alla diga che il proposito di farla saltare era fallito in quanto erano stati tolti i fornelli di mina. Sembrerebbe stupido, spiegava l'ingegnere, eppure era così.

Senza i fornelli la diga poteva saltare in aria ma occorreva un tonnellaggio enorme di tritolo o dinamite, cosa che era impossibile. Con i fornelli la cosa sarebbe stata differente. Sarebbe bastato un sol chilo di dinamite per ottenere effetto maggiore di dieci tonnellate senza i fornelli. Cosa dunque impossibile sia perchè essi non disponevano di tutto quel materiale, sia perchè piombammo loro adosso come sparvieri. Sulla diga sventolava il vessillo tricolore, quello della Patria. A pochi chilometri da Cerasole Reale c'è Chiaverano dove termina la nostra Italia. Al di là c'è la Francia. In questo estremo lembo della Patria sembra più bello essere italiani. Andai con altri camerati sul confine. Fino alla fine di settembre rimanemmo in quei luoghi. Indi andammo a Torino per un meritato riposo. A Torino, dopo i disagi e le fatiche sostenute, facemmo vita di guarigione. Il 29 ottobre dello stesso anno ricevemmo dalla nostra madrina Signora Orrù, moglie del comandante del Battaglione, il premio che desideravamo da un pezzo, forse il più ambito: la fiamma di combattimento. "Scatto-Travolgo-Vinco", c'era scritto da una parte su fondo azzurro. Dall'altra i tre colori e sul bianco, in luogo dell'infamato Stemma Sabaudo, c'era la cifra romana simbolo della Decima. Abbiamo scattato, abbiamo travolto, abbiamo vinto tutte le battaglie, anche se abbiamo perduto la guerra. Abbiamo profuso tutte le nostre energie per il conseguimento di una vittoria giusta che molti italiani non hanno voluto. La medaglia d'argento conferita alla nostra fiamma, la medaglia d'oro alla memoria, le 7 medaglie d'argento (3 a viventi), le 19 medaglie di bronzo (15 a viventi), le 7 promozioni al merito di guerra (6 a viventi), le 15 croci di guerra (tutte a viventi), i 39 encomi solenni lo stanno a dimostrare. Abbiamo scattato e travolto nemici d'ogni genere. 200 contro 2000 è stato l'episodio culminante che ha trovato eco in tutta la stampa mondiale. Anche Radio Londra lo ha detto. "I partigiani di Borghese" ci ha chiamati.

Ma i marinai di Valerio Borghese, i marinai di quella M.O. che violò più volte le munitissime basi inglesi, i marinai di quel marinaio che l'8 settembre, ricevuto l'ordine di recarsi a Malta con i suoi mezzi d'assalto, issò bandiera di combattimento scorazzando ardito per i mari, i marò di Valerio Borghese si coprirono di gloria e stupirono il mondo intero. A Tarnova della Selva, in quell'angolo remoto di mondo, combattemmo col cuore, conquistammo la palma con le bombe a mano e col pugnale. Il 14 novembre '44 il Btg. Fulmine con tutta la divisione, viene trasferito a Conegliano Veneto (TV). Qui, col primo mezzo sceso per i rifornimenti, raggiungo Maniago. Dopo aver subito un solenne rimprovero dal Comandante di Compagnia per la licenza arbitraria partecipo all'azione che porta la mia squadra a Tramonti di Sotto. L'attacco ad un caposaldo partigiano lo conduco con una certa perizia tattica, ma i partigiani si difendono molto bene. La difesa è rabbiosa ma siamo decisi a resistere. Di notte sgusciamo sul terreno impervio, riusciamo a portarci sotto il centro di fuoco avversario senza che loro se ne accorgano. All'alba tutto il caposaldo era circondato. Razzo verde significa attacco. Alle 6 circa lancio il razzo. Un fuoco infernale di armi automatiche si apre contro il fortino. Il nemico si difende benissimo. Con bombe a mano riusciamo però a farlo tacere. Nell'attacco vengo colpito da una pallottola di mitra alla gamba destra, anzi alla coscia; cosa da nulla, ma il fortino viene conquistato. I partigiani superstiti, 7 in tutto, vengono fatti prigionieri. Dopo le prime cure vengo inviato all'ospedale della Marina a Mirano Veneto. Il proiettile mi viene subito estratto senza dolore e come per magia dopo appena 15 giorni la ferita mi si chiude e sono bello e guarito. Intanto il Battaglione si sposta verso Gorizia. Appena uscito dall'ospedale la ferita viene a suppurazione dopo essersi aperta e devo essere ricoverato nuovamente in ospedale dove rimango fino al 4 gennaio 1945. Vado in licenza alcuni giorni ma torno al Battaglione ancora in tempo per prendere parte alla battaglia di Tarnova della Selva contro le bande slave di Tito. Tarnova della Selva. 200 contro 2000. Ore 4.45 del 19 gennaio '45. Cielo coperto.

Impenetrabile foschia che dura tutto il giorno. Neve quasi a 50 cm. Raffiche di Sten, di mitra. Pattuglie avanzate si scoprono con nutrite scariche. Razzi inopportuni e nocivi per noi stessi. Il centro più avanzato (n.1) viene sottoposto a tiro incessante di tubi di stufa (Panzerschrek, arma portatile anticarro da 88), bombarde, mortai, mitragliatrici. Le prime perdite si fanno sentire per la deficiente ed impari reazione. I bunker reagiscono appena perchè ancora non possono centrare questo nemico fantasma. La lotta si fa ravvicinata. Dopo una così improvvisa e micidiale tempesta di fuoco bisogna mostrarsi con grida furibonde per muovere all'assalto. L'attacco ha buon esito grazie alla sorpresa. Ma all'assalto gli animi sorpresi reagiscono con molteplici energie. I feriti, i morti sono di sprone. Gli attaccanti smorzano i bollori della loro audacia e si fanno più prudenti. Bisogna attendere i loro errori, che tardano a manifestarsi. Rafforzando il fuoco e rinnovando con più celerità gli attacchi contro i nostri bunker, si notano alcuni nostri cedimenti dovuti più che all'inferiorità di uomini e di mezzi, all'azione micidiale del tubo di stufa. Alcuni bunker tacciono, altri appena reagiscono. Una rosa di colpi di mortaio strema gli uomini; i rifornimenti sono nella impossibilità di espletare il loro compito. Il fuoco non cessa. Ore 21 Il posto più avanzato della nostra difesa avvista un nido attivissimo e forte ed invia 3 marò decisi al suo annientamento. Ma il nemico ha occhi che trapassano l'oscurità e, malgrado l'adattamento all'ambiente, avverte i nostri marò con scariche di mortai, di armi automatiche, di bombe a mano. E' impossibile tentare un'infiltrazione nella copertura marginale nemica. Il bunker non ha sufficienti uomini per poter tentare una sortita o una migliore sistemazione di mezzi e di fuoco. Intanto al nemico giungono nella notte numerose salmerie. Ci attende un fuoco d'inferno per quanto fino a quel momento non era stato diverso. L'aspettativa non si fa molto attendere.

Scariche nutritissime di armi automatiche accompagnate dal coro della "katiuscia" seminano i primi sintomi di panico nei nostri avamposti. I morti ed i feriti non si contano ormai più. Alcuni bunker vengono precipitosamente evacuati, ma l'ordine è di resistere ad oltranza e bisogna, a costo del sacrificio supremo, riconquistarli all'assalto che riesce brillantemente allorchè il nemico ormai padrone della situazione, contrattacca con ardore e selvaggia ferocia. I morti non possono essere trasportati fuori dai bunker ed i feriti sono d'impiccio. Il nemico martella senza sosta e sanguinosamente contro i capisaldi che vigilano sulle vie d'accesso a Tarnova salvaguardando le poche risorse di uomini, di viveri e munizioni. Si resiste contro un nemico agguerrito e forte nella subcoscienza della vittoria. Le tonanti grida (Juri Tito, Zivel Tito) predicono una sortita all'arma bianca. Siamo pronti. Vaghe ombre di uomini filtrano attraverso la foschia dell'alba dirette con colpi di mano a prenderci alle spalle. E' possibile eliminarli o farli desistere solo quando questi vengono sotto tiro. Diversamente l'epica lotta si sarebbe ridotta alla caccia del singolo. Ore 8 del 20 gennaio 1945 I Radiotelegrafisti insonni e quasi tutti feriti martellano senza sosta sui tasti. Le loro fronti sono madide di sudore. I loro visi sotto la maschera dell'impassibile freddezza rivelano la tensione fisica e morale. Intanto nella notte precedente il nemico aveva smantellato due bunker annientandoli completamente con tubi da stufa, l'arma micidiale, alla quale una rozza o naturale difesa non può offrire molta resistenza. Le sue granate traforano i massi e i tronchi che costituiscono lo scheletro dei capisaldi. La lotta non da soste. Raramente e solo per pochi secondi un lato dell'offesa cessa di farsi sentire. I nostri mortaisti lesinano le restanti granate. Sarebbe stato possibile costituire il fuoco di sbarramento solamente con una disponibilità di granate, ma i colpi erano contati e su di essi vigeva l'affidamento e la salvezza dei nuclei difensivi sparsi dovunque senza camminamenti o trincee. Una fossa, un muro di una casa, un poggio granitico naturale, un tronco d'albero, erano probabili nidi della difesa.

Cerchiamo con affanno di sfruttare le irregolarità del terreno comunque ci si presentino. Il nemico non cessa di accanirsi contro questo pugno di giovanissimi che difendono l'italianità di Gorizia. Alle loro intimidazioni di resa rispondiamo con sberleffi e con parole di fede nella nostra difesa portata fino all'estremo sacrificio. Più che a combattere sembriamo decisi a morire perchè ci sentiamo i soldati dell'onore. Vogliamo dimostrare ai paesi d'oltre Alpe che hanno detto: "Gli italiani non sanno combattere" che si sono sbagliati di gran lunga. La lotta si fa più accanita per la furibonda violenza. Siamo prossimi all'annientamento fisico e, per quanto lo spirito non sia scosso dalla battaglia, esso manifesta qualche segno di ragionevole dubbio sull'esito della battaglia. La fine è certa e nulla può evitarla. Si preparano affannosamente cariche di gelatina e tritolo. "Gli slavi non ci avranno vivi" è il nostro pensiero. "Mineremo tutto, moriremo con le macerie ma essi non ci dovranno avere". E' questo pensiero della fine inevitabile che agita gli animi dei pochi superstiti che ancora difendono Tarnova. Ore 23 del 20 gennaio 1945 Silenzio di tomba. Di lontano una voce in perfetto italiano chiama il Comandante del Battaglione. E' lugubre, fa veramente tremare. Sembra di udire l'insistente ululato di un lupo. "Capitano Bini, signor Capitano Bini, ascoltate, sono io, il marò Lucon, non c'è più nulla da fare, conviene arrendersi, vi salveranno la vita, arrendetevi Capitano". "Ci salveranno la vita, ci salveranno la vita, ci salveranno la vita..." qualcuno mormora nella passività del momento, meccanicamente. Ma il Comandante tiene duro, non mollerò, non mollò. Intanto... Ore 23.35 del 20 gennaio 1945 Intanto giunge l'ordine del Comando di Divisione, dislocato a Gorizia, di rendere inservibili le armi pesanti. Gli uomini fortunati, coloro che possono ricevere quest'ordine, dovranno affluire alle 24 al Comando di Battaglione per scivolare sulla neve, abbandonando ogni ulteriore resistenza. Ma i feriti ed i morti preoccupavano e facevano breccia nel cuore del Comandante, che dispose che i superstiti assistessero i feriti prima di raggiungere una posizione più arretrata. Per ultimo segue lui. Si nota qualche lacrima.

E' necessario rispondere ad una giusta domanda: "Quanti erano i vivi, i feriti e quanti i morti!". Le difficoltà del momento non consentivano una immediata e precisa risposta. Era impossibile: gli uomini erano sparsi ovunque. Ore 1 del 21 gennaio 1945 Molti erano i morti ed i feriti, pochi i vivi. L'ordine di sganciamento non fu trasmesso a tutti. Ancora due caposaldi erano in piedi e non furono avvertiti. Un silenzio di tomba regna a Tarnova. I partigiani sgusciavano come gatti notturni dalle cantonate. L'accesso al cuore del paese avvenne senza colpo ferire. La tragedia ebbe inizio! I feriti sono in pericolo. Impossibilitati a reggersi da soli e ricoverati in una piccola casa, sottoposti a fuoco martellante di mortai, pregano gli stessi camerati improvvisati infermieri, di far cessare le loro sofferenze con un colpo d'arma da fuoco, per non cadere in mano nemica. Gli slavi entrano nella cameretta dei feriti. Nei loro occhi c'è l'odio non sopito che si riaccende alla loro presenza. Li odono lamentarsi e la loro ferocia si abbatte contro quegli uomini. Li seviziano senza pietà. Che orrore! I campanelli d'allarme sparsi lungo la fascia vicino a Tarnova annunciano improvvisamente l'arrivo dei tedeschi che vengono da Trieste a darci aiuto. Una mezz'ora è sufficiente per la fucilazione dei difensori rimasti isolati. Le raffiche rabbiose si confondono con la bora. Per i feriti non occorre molto: un calcio, una spinta, un colpo. I pochi superstiti, quelli cioè che come me avevano avuto la fortuna di salvarsi in qualche modo, si videro circondati dai tedeschi. Cameratescamente ci offrivano sigarette, cioccolato, pane. Erano giorni che non bevevamo neppure. Ci dissetavamo con un pugno di neve. Saputo dal Comandante tedesco che la strada che conduceva a Gorizia era libera e sicura, ci mettemmo in cammino. A circa un paio di chilometri da Gorizia incontrammo alcuni camerati e da loro apprendemmo dell'ordine del Comando di Divisione di ripiegamento. Noi, 23 in tutto, eravamo considerati già come spacciati. Raggiungemmo il Comando e non sto a narrare l'accoglienza. Tutti ci circondarono e dopo averci abbracciati, ci fecero tante domande. Insomma ci requisirono e vollero sapere, sapere come erano andate le cose, come avevamo fatto a scamparla, cosa ne pensavamo degli slavi. Molti piansero ricordando i fratelli lasciati lassù. A Gorizia rimanemmo fino alla fine di gennaio, ritornando poi a Conegliano.

La Prima e la Seconda Compagnia del nostro glorioso Battaglione Fulmine erano ridotte ad un totale di 58 uomini. Non sapevano, i Comandi, che cosa farne di esso. Molti volevano andare a far parte di altri Battaglioni, ma una voce bastò dal farli desistere dal proposito. Fu quella del Comandante. "Rammentate ragazzi, che più dei due terzi di quello che era il nostro, il mio Battaglione, hanno lasciato la vita a Tarnova della Selva per difendere quel pezzo di terra che conquistarono i nostri padri. Andar via significherebbe tradirli e voi, a ricordo delle tristi e gloriose ore trascorse, non potete, non dovete, non avete il diritto di tradirli. Volete voi fare questo? Andare ad altri Battaglioni non significa tradire l'idea o la Patria, poichè anche gli altri Battaglioni combattono per la stessa causa e lo stesso fine, ma significa tradire quel Battaglione il cui nome rifulge per il mondo, significa tradire quegli uomini che tanto hanno osato in nome del glorioso Fulmine". "Fulmine marinai" "Fulmine Comandante"! Fu un sol grido che uscì dalle nostre bocche e in quel grido, che ad un profano poteva sembrare un urlo confuso, c'era il nostro "No". Mai avremmo, e per nessun motivo, abbandonato quel glorioso Battaglione che ci aveva e che avevamo coperto di gloria, mai avremmo tradito la memoria dei nostri fratelli caduti per la difesa della santa Gorizia italiana. E difatti nessuno abbandonò quel Battaglione che aveva combattuto spargendo tanto sangue. Avemmo tutti una licenza premio di 15 giorni. Io e Mantini andammo a trascorrerla a Venezia. La caserma di Salcano rimase pressochè vuota. Rientrati in sede apprendemmo la fusione del nostro Battaglione con quello pur glorioso della Decima: "Il Castagnacci". Ma il nome rimase Fulmine. Febbraio 1945 - 28 aprile 1945 Fino alla fine di febbraio rimanemmo a Conegliano di presidio. Vita monotona, priva di emozioni, abbastanza scialba. Qualcosa di nuovo volevamo, qualcosa che potesse darci il brivido e la sensazione di far qualcosa di buono e di utile. Ma i partigiani non ci offrivano tutto questo, rintanati sui monti! Ai primi di marzo fummo trasferiti, con tutta la Divisione, nella zona di Thiene. Il nostro battaglione fu suddiviso come segue: la III Compagnia a Carrè (a 4 km da Thiene), la I Compagnia presso il comando di battaglione tra Carrè e Chiuppano, la II Compagnia, la mia, a Chiuppano (a 5 km da Thiene), la IV Compagnia a Caltrano (a 6 km da Thiene).

La chiamammo IV Compagnia, ma a tutti gli effetti erano i complementi del Btg. Castagnacci che vennero a rimpopolare le nostre magre fila. Iniziammo qui gli addestramenti con le armi tedesche. (Panzerfaust e Panzerschrek) per la lotta ravvicinata contro i carri armati. Le istruzioni procedevano con alacrità ed ottimo risultato, quando arrivammo all'infausta data del 26 aprile 1945. Lo sfacelo era già in atto. I partigiani avevano occupato quasi tutte le stazioni radio e trasmettevano i loro enfatici comunicati. Vicenza era già in mano ai partigiani. Le comunicazioni con Milano erano interrotte. Borghese stava a Milano. Noi non sapevamo cosa fare. Tristi giorni, ore dolorose. A Thiene, saldamente in nostre mani, avremmo scritto altre pagine di eroismo. Molto consistenti erano le forze della Decima. Difficilmente ci avrebbero presi. La nostra III Compagnia, composta esclusivamente di giovani italiani residenti in Francia che dopo l'8 settembre erano venuti in Italia per difenderla dall'invasore, posta di presidio alle porte della città, abbandona il posto. Al comando del Comandante di Compagnia T.C. Parello e munita di regolare lasciapassare del comando partigiano, si allontana. Il nostro Comando, preso alla sprovvista, non sa cosa fare. Iniziano le trattative per la nostra resa, assieme al comandante dei partigiani, un giovane alquanto ardito e risoluto. Le condizioni erano queste: il comando partigiano avrebbe dato un foglio di via ad ognuno di noi per raggiungere la propria casa, a patto della consegna delle armi. La bilancia oscillava tra il sì ed il no. Il Comandante di Divisione aveva già accettato quando il nostro Comandante di Battaglione gli intimava di ritirare immediatamente la parola data. Non poteva permettere che dei giovani completamente disarmati fossero andati per le strade quando era già nota la malvagità e la mala fede dei partigiani. Tutti assieme avremmo lasciato la città e ci saremmo recati a Schio, in provincia di Vicenza, unendoci ai paracadutisti tedeschi e, via Rovereto, avremmo raggiunto la Germania. Fu così che il 29 aprile 1945 alle 15 lasciammo Thiene diretti a Schio. Vi arrivammo alle 17 ed apprendemmo che già alle 12 i paracadutisti tedeschi erano andati via.

Tentammo di andare verso Rovereto, ma la cosa fu impossibile a causa di un ponte fatto saltare. Dopo varie trattative, prima con i comandanti partigiani poi con quelli alleati, si decise, per evitare ulteriore spargimento di sangue, di ripiegare su Torrebelvicino, nei pressi di Schio. Ci ammassammo al campo sportivo di Torrebelvicino, ancora provvisti di tutto l'armamento. Ci schierammo ed intonammo la canzone della Decima Flottiglia Mas. Al termine, il Comandante, con calde parole e visibilmente commosso, ci salutò e ci disse che l'opera che avevamo svolto non era stata vana, che la Patria ci era riconoscente e che ci augurava ogni bene ed ogni fortuna per noi e per le nostre famiglie. "Decima marinai" "Decima Comandante!" Quindi ci passò in rassegna e con lui il comandante americano ed il suo seguito, che nel frattempo erano venuti a prenderci in consegna. Il nostro Comandante aveva il braccio alzato nel fiero saluto romano, quello americano ed il suo seguito portavano la mano alla visiera nel saluto militare. Noi presentavamo le armi. E qui ci vorrebbe un lungo commento. Il gesto dell'ufficiale americano fu per noi vinti il più alto riconoscimento che potevamo avere. Non avrei mai creduto che un americano potesse avere parole amiche per il nemico sconfitto. Iniziammo quindi la consegna delle armi. Come a Tarnova, nel seppellire i nostri morti, ogni colpo di piccone era una lacrima, così a Schio ogni arma depositata era un moto di rabbia represso. Tutti sentivamo il distacco, tutti ci sentivamo indifesi. Arrivo il mio turno. Baciai la mia pistola ed il mitra e portai le mani al volto per non far vedere che ero commosso. Volevo mostrarmi superbo, altero, ma il distacco fu più forte di me. Terminata la consegna delle armi si procedette alla perquisizione. Nulla fu trovato ad alcuno. 30 aprile - 16 ottobre 1945 Dopo aver dormito una notte all'addiaccio, partimmo con camions alleati per Vicenza. Pioveva a dirotto. Vi arrivammo verso le 13. Altra perquisizione, operata questa volta dai negri. Da Vicenza si parte, per la prigionia. Questa è in breve la narrazione della mai appartenenza alla II Compagnia del Btg. Fulmine della Decima Flottiglia Mas. Appartenenza della quale sono fiero.
 


 

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