Ultimo Urlo - Inviato da: Panzerfaust - Sabato, 02 Gennaio 2010 15:56
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La storia del Barbarigo

 .: La storia del Btg. Barbarigo

di M. Perissinotto

 

SIAMO QUELLI CHE SIAMO
IL BATTAGLIONE FANTERIA DI MARINA BARBARIGO
1943 - 1945

Alle ore 19.42 del giorno 8 settembre 1942 un breve messaggio diffuso via radio precipitò l'Italia e le sue forze armate, già provate da oltre tre anni di guerra, nella più grave crisi della loro storia. Il maresciallo e capo del governo Badoglio annunciò alla nazione:
"Il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al gen. Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate angloamericane.
La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto d'ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".
In altri termini, era avvenuto all'insaputa di tutti un salto di barricata. L'Italia, anziché porre semplicemente termine alle ostilità per la grave situazione interna, continuava a combattere accodandosi a quello che era lo schieramento più forte.
Poco dopo la famiglia reale, e le massime gerarchie abbandonavano Roma, e cercavano rifugio al sud. Le forze armate italiane schierate in tutta l'Europa ed affiancate a quelle tedesche non avevano alcuna disposizione preventiva, e neppure sarebbe loro giunto alcun ordine. Iniziò così un processo di sfacimento che portò in poche ore al quasi totale sbandamento dell'Esercito, e che divise Marina ed Aeronautica.
La flotta navale, in ossequio alle norme armistiziali, per la massima parte si consegnò senza combattere a Malta, dove fu disarmata. I superstiti reparti aerei si divisero tra il nord ed il sud, mentre l'esercito si sbandò.
Nello stesso tempo a sud forze alleate sbarcarono nella zona di Salerno, ed a nord l'esercito tedesco si precipitò ad occupare il resto della penisola.
A La Spezia, alla caserma del Muggiano, aveva sede il comando della Decima Flottiglia MAS; era questo il nome di copertura dei reparti navali subacquei e di superficie che nel corso del conflitto, pur essendo composti da poche centinaia d'uomini, avevano affondato con armi del tutto innovative per l'epoca 72.190 tonnellate di naviglio da guerra e 130.572 tonnellate di naviglio mercantile, ossia nove unità da combattimento e ventidue altre navi. Il suo comandante era la Medaglia d'Oro al Valore Militare C.F. Junio Valerio Borghese.
Questi apprese casualmente dalla radio dell'armistizio. Cercò invano d'avere ordini dai superiori, ed infine dovette arrendersi ad una realtà durissima.
" Io, l'8 settembre, al comunicato Badoglio, piansi. Piansi e poi non ho più pianto... Perché quello che c'era da soffrire, lo soffrii allora.
Quel giorno io vidi il dramma che si andava ad aprire per questa disgraziata Nazione che non aveva più amici, che non aveva più alleati, non aveva più nessuno, non aveva più l'Onore, era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa: non ci si batte solo quando tutto va bene."
Nella notte fra l'otto ed il nove settembre la flotta salpò da La Spezia credendo d'andare in battaglia, ed essendo destinata invece a perdere l'ammiraglia per poi consegnarsi intatta agli inglesi.
La Decima s'asserragliò in buon ordine e con perfetta disciplina nella sua caserma, sempre con la bandiera italiana a riva, mentre davanti passavano le colonne germaniche.
Ogni tentativo tedesco d'impadronirsi della caserma fu respinto con fermezza, ma senza ricorrere alla violenza.
Alla fine, rimase un gruppo di volontari che, sentendosi sciolti dal giuramento per l'ignominioso atto dell'armistizio, intendevano continuare la lotta da italiani ed a fianco del vecchio alleato. Dopo una breve trattativa il 13 settembre 1943 un ufficiale della marina germanica sottoscrisse con Borghese un vero trattato d'alleanza, in cui alla Decima erano riconosciute tutte le prerogative di sovranità e d'autonomia.
La caserma cominciò quindi ad essere un punto di riferimento a cui si rivolgevano sia sbandati in cerca di protezione, che volontari decisi a riprendere le armi. Tra essi v'erano nomi di rilievo, come le medaglie d'oro Mario Arillo e Luigi Ferraro, il comandante del reparto d'incursori della Regia Marina Nino Buttazzoni con grossa parte dei suoi uomini, numerosi piloti ed assaltatori della vecchia Decima.
In un breve intervallo, poterono essere rimesse in piedi tutte le scuole delle specialità navali; crescendo il numero dei volontari, fu deciso di inquadrarli in reparti di fanteria di marina.
In buona sostanza, riprendendo le tradizioni del Risorgimento, s'impiantarono le basi d'una vera forza armata navale e terrestre, dotandola in embrione di tutti i servizi e facendo in modo, grazie anche ad un modo di agire informale pur se improntato alla più stretta correttezza, che la Decima funzionasse assai meglio delle altre forze militari che la affiancarono. Soprattutto, le si diede uno spirito rivoluzionario, basato su alcuni punti fondamentali:
1) Rancio unico per ufficiali, sottufficiali e marinai.
2) Panno della divisa uguale per tutti.
3) Sospensione d'ogni promozione sino alla fine della guerra, fatta eccezione per le promozioni per merito di guerra sul campo.
4) Reclutamento esclusivamente volontario.
5) Pena di morte per i militari della "Decima" che siano riconosciuti colpevoli di furto o saccheggio, diserzione, codardia di fronte al nemico.
Così nel settembre ed ottobre del 1943, nell'Italia squassata dall'armistizio furono molti i volontari che si presentarono a La Spezia per arruolarsi.
Il loro gesto non era motivato da altro che dalla ripulsa di un patto con cui i suoi responsabili politici avevano fatto passare repentinamente e proditoriamente l'Italia da uno all'altro dei contendenti. Essi volevano espiare quell'obbrobrio, se necessario anche sacrificando le loro vite e in ogni caso con la certezza di schierarsi dalla parte del perdente.
E volevano farlo al di fuori d'ogni scelta di parte politica; ogni motivazione, ogni fede di partito cessava d'esistere per chi sceglieva d'indossare il basco grigioverde.
La Decima, già resasi famosa per le sue azioni d'assalto marittimo nella prima fase del conflitto, non aveva mai ammainato il tricolore dalla sua caserma. Gli stessi tedeschi, quando avevano occupato l'Italia centro settentrionale, avevano rispettato la sua fiera autonomia, al punto da stilare un vero trattato paritetico d'alleanza fra le colossali forze armate del Reich e questa piccola unità italiana.
Furono dapprima centinaia e poi migliaia quelli che chiesero di riprendere le armi; ben presto il loro numero superò le necessità dei vari reparti e scuole per le specializzazioni d'assalto navale, e nacquero così i primi battaglioni di Fanteria di Marina.
Questi furono il Nuotatori Paracadutisti, composto dai veterani dell'omonimo reparto della Regia Marina, ed il Maestrale, formato dai volontari accorsi nel frattempo.
Al comando del Maestrale fu posto un ufficiale sommergibilista dal forte carisma personale: il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli.
Alla fine di dicembre 1943 la paura di taluni ambienti della neonata Repubblica Sociale Italiana per la Decima, troppo poco politicizzata e troppo indipendente, si concretizzò, dopo vari scontri, nell'arresto del suo comandante: Junio Valerio Borghese.
I due battaglioni si misero subito sul piede di guerra, pronti anche a marciare su Salò per liberare il loro comandante.
La faccenda si risolse senza uno scontro fratricida, ma nelle gerarchie militari repubblicane non ci si scordò che i marò avevano inteso porre mano alle armi contro la nomenklatura.
Per punizione uno dei due reparti doveva andare al fronte.
Per il prestigio di Bardelli, la scelta cadde sui ragazzi del Maestrale.
Fu intensificata la preparazione, e si mutò anche il nome: da Maestrale divenne Barbarigo, in onore del sommergibile atlantico comandato dalla medaglia d'oro Enzo Grossi.
La destinazione era la testa di ponte anglo americana d'Anzio e Nettuno, costituita il 22 gennaio 1944 con un improvviso sbarco a sud di Roma.
Il 19 febbraio 1944 il Barbarigo partiva per Roma: era ordinato su Comando e quattro compagnie, armate di mitra MAB, di pochi fucili mitragliatori Breda 30 e di qualche mitragliatrice Breda 37. Mancavano i cannoni, mancavano le mitragliere, mancavano persino i cappotti, e mancava soprattutto ogni esperienza di combattimento.
Le uniformi erano quelle grigioverdi da paracadutista col basco ed un maglione a collo alto.
A Siena, dove la pittoresca colonna (il viaggio avveniva su multicolori autobus civili) fece sosta, ai 980 fra ufficiali e marò s'aggiunsero altri 200 volontari: erano tutti gli allievi della locale scuola Allievi Ufficiali della GNR, che disertavano per il fronte.
Giunto alla capitale alla fine di febbraio, il battaglione fu avviato al fronte, che raggiunse il 3 marzo.
Gli fu assegnato il tratto di linea tra il lago di Fogliano ed il Canale Mussolini, all'estremità sud orientale della testa di ponte. Davanti a lui combatteva la First Special Service Force, un reparto d'élite misto canadese e statunitense, ben addestrato alle tattiche di fanteria ed alle tecniche dei commandos, e sostenuto dal potentissimo apparato logistico alleato.
I ragazzi del Barbarigo poco sapevano di guerra; sotto il fuoco nemico che pioveva da terra, dal mare e dal cielo, in un terreno fradicio, subendo continue perdite, tennero la linea supplendo ad ogni mancanza con lo spirito che li animava.
Valga un esempio: nelle pause del tiro d'artiglieria americano, i marò si sporgevano dalle buche, rischiando la vita ed attirando ulteriori proiettili pur di rivolgere agli avversari sberleffi e gestacci.
Il Barbarigo rimase tre mesi al fronte; i suoi uomini impararono il mestiere delle armi sul campo, mentre migliorava sia pure di poco il loro armamento.
Alle quattro compagnie fucilieri s'aggiungevano, creati sul campo, una quinta compagnia cannoni ed il gruppo d'artiglieria San Giorgio.
Alla fine di maggio l'offensiva alleata impose l'abbandono della linea.
Il Barbarigo si ritirò combattendo
La seconda compagnia si sacrificò in parte a Cisterna di Latina, ed il suo Guardiamarina Alessandro Tognoloni si guadagnò in un folle assalto individuale contro i tank alleati, la medaglia d'oro.
La terza seppe rimanere compatta da Terracina a Roma sotto gli attacchi del nemico.
Il maglio alleato s'abbatté sui marinai delle altre compagnie e batterie che ripiegavano appiedati, li scompaginò, li ferì, li uccise.
I resti del battaglione giunsero a Roma: erano circa 600 persone. Fra d'esse fu formata una compagnia di formazione che si distese fuori della capitale, per offrire l'ultima resistenza al nemico avanzante.
La mattina del 4 giugno 1944, ultimi in grigioverde, uscivano da Roma gli uomini del Barbarigo; la sera entravano gli americani.
Nell'estate del '44 il Barbarigo fu trasferito in Piemonte per ricostituirsi. Lì ebbe il suo più tragico incontro con la guerra civile: nel paesino d'Ozegna il comandante Bardelli e 18 uomini, impegnati in una trattativa con un gruppo partigiano, furono proditoriamente uccisi. Seguì uno stillicidio di perdite, accettate senza cadere nella logica terribile della vendetta. A quei giovani faceva orrore la lotta contro altri italiani.
L'autunno del '44 vide il Barbarigo trasferito dapprima in Carnia e quindi nel Goriziano, impegnato nelle operazioni tese a bloccare l'avanzata jugoslava verso ovest.
Qui, dislocato a Salcano, ebbe violenti scontri prima a Chiapovano e quindi sul Monte San Gabriele, che contese e vinse alle forze del IX Corpus Jugoslavo.
Ritirata la Decima dal goriziano, il Barbarigo, dopo un periodo di riposo a Vittorio Veneto, fu avviato al fronte sud, sul Santerno.
Di qui, nell'aprile 1945, quale parte del 1° gruppo da combattimento Decima, fu chiamato a tappare la prima falla aperta dagli alleati nella linea del fronte.
Poi l'intero schieramento difensivo crollò ed iniziò l'ultima ritirata, effettuata combattendo in retroguardia contro soverchianti forze avversarie.
Sotto i bombardamenti aerei incessanti, tallonato dalle avanguardie avversarie, passò il Po e l'Adige, giungendo sino alla periferia di Padova.
Qui fu accerchiato dai corazzati avversari.
Nella notte gli uomini vissero un intenso conflitto; molti volevano dare l'ultima battaglia, chiudere combattendo l'impegno morale assunto all'atto dell'arruolamento. Poi, prevalsero gli inviti degli ufficiali, e fu decisa la resa con l'onore delle armi.
Nell'oscurità, tremila persone piangendo cantarono "Va' pensiero...", mentre riflettori sciabolavano la notte.
Il mattino, inquadrati ed armati, i marò a passo di parata entrarono in Padova.
I cittadini dapprima li presero per vincitori, poi, riconosciutili per vinti, tentarono d'assalirli.
Qualcuno allora prese dalle tasche l'ultima paga e la lanciò alla folla; altri imitarono il suo esempio.
Le urla "Copei! Copei!" tacquero subito; tutti erano troppo impegnati a raccogliere le banconote.

Marino Perissinotto

 

.: Ozegna : il punto di svolta

l'Italia centro settentrionale nell'estate del 1944 è preda della guerra civile; spesso il solo indossare la divisa della Decima equivale ad una condanna a morte.
Gli Alleati, dopo la cattura di Roma e l'avanzata sino a Firenze, sbarcano a sorpresa nella Francia meridionale. La possibilità di una loro rapida vittoria aumenta a dismisura il numero delle formazioni partigiane, soprattutto nelle regioni alpine dove più facile è il nascondersi, il combattere per bande ed imboscate, lo sganciamento in caso di azioni avversarie.
Le forze italo tedesche si rischierano, per fare fronte sia all'accresciuta attività guerrigliera, sia per parare un possibile attacco dalle Alpi occidentali. I movimenti interessano anche la fanteria di marina della Decima.
I battaglioni Barbarigo (con organico ridotto al lumicino dopo le perdite subite a Nettuno ed a Roma), Sagittario, Fulmine, Freccia sono trasferiti in Piemonte, quale riserva tattica del LXXV Corpo d'Armata tedesco, incaricato della difesa fra il Monte Bianco e Ventimiglia.
La politica della Decima verso i partigiani, voluta personalmente da Borghese, è di reciproca non interferenza.
I marinai repubblicani si preparano ad andare al fronte, e non alla guerra civile; che i partigiani combattano pure la loro guerra contro i tedeschi.
Così avviene, inizialmente.
A far precipitare le cose, imponendo una scelta individuale e collettiva molto dura, spesso lacerante, sono i fatti che seguono alla diserzione di un guardiamarina (o ex sottufficiale di sanità) del Sagittario, Gaetano Oneto.
Costui, nei primi giorni del luglio 1944 lascia il suo reparto, assieme a due marò, all'attendente, alla moglie ed al cane, portando con sé la cassa del reggimento.
Si mette in borghese, e va nel paese di Ozegna per prendere il treno.
Qualcuno lo vede, e la sua presenza viene segnalata alla Decima.
Quel giorno, l'8 luglio, Umberto Bardelli, comandante della Divisione, è passato a salutare il "suo" Barbarigo a Viverone.
Al momento della partenza ha chiesto di avere una scorta per raggiungere Agliè, dov'è accasermato il Sagittario.
Sono partiti nel primo pomeriggio, lui davanti nella sua FIAT scoperta, e al seguito un camion con una quarantina di Marò, in gran parte della I compagnia.
Ad Agliè, informano Bardelli della fuga di Oneto, ed anche che i disertori sono stati visti nel vicino paesino di Ozegna.
Il comandante decide di andare a catturarli.
Carica assieme alla sua scorta qualcuno del Sagittario, per riconoscere i fuggiaschi.
Il convoglio riparte, e giunge nel paesino; l'auto, che precede il camion d'una cinquantina di metri, arrivata nella piazza centrale, e si ferma sul sagrato della chiesa dove viene circondata da una ventina di partigiani armati.
Umberto Bardelli, come gesto di buona volontà, ordina agli uomini di scendere a terra e di mettere i mitra a tracolla, ed agli ufficiali di deporre a terra le pistole.
Egli stesso posa al suolo la sua Walther P 38.
Chiese poi ai partigiani di poter parlare col loro comandante; il capo della formazione, Piero Urati, conosciuto col nome di guerra di Piero Piero, di orientamento politico social-comunista (peraltro destinato successivamente a mutare), giunge nella piazza.
Fra i due inizia un dialogo, voluto soprattutto da Bardelli.
I ragazzi della Decima, pure coscienti della situazione, non credono al rischio d'un agguato; un partigiano riesce persino a rubargli un mitra.
Nel frattempo, attorno alla piazza hanno preso posizione altri ribelli. I rapporti di forza sono mutati a loro favore.
Urati, accerchiati i marinai, s'allontana di qualche passo, e grida a Bardelli "Comandante, siete circondato, arrendetevi!"
Bardelli, urlando "Barbarigo non s'arrende!" si china, raccoglie la sua pistola, e risponde al fuoco incrociato che è stato improvvisamente aperto.
È colpito ad un braccio e ad una gamba, cade a terra, ma spara ancora.
Una raffica al petto lo uccide.
La piazza si è istantaneamente trasformata in un inferno di pallottole, di raffiche di mitra e di colpi esplosi quasi a casaccio.
I marò della scorta sono presi di sorpresa. Rapidamente esauriscono le munizioni, senza abbozzare alcuna manovra. Molti sono feriti, o muoiono subito, qualcuno riesce fortunosamente a sottrarsi al fuoco partigiano, uno si nasconde infilandosi in chiesa.
Alla fine, oltre a Bardelli sono caduti Salvatore Beccocci, Roberto Biaghetti, Pietro Rapetti, Francesco Credentino, Franco De Bernardinis, Ottavio Gianolli, Pietro Fiaschi, Giovanni Grosso, Armando Mai, Angelo Piccolo.
Nelle file nemiche hanno perso la vita tre partigiani ed un civile.
I superstiti si arrendono.
I morti ed i vivi della Decima vengono derubati; a Bardelli strappano i denti d'oro dalla bocca; il partigiano che lo ha falciato con una raffica di mitra si prende per trofeo il suo pugnale.
Gli portano via persino il fischietto (di produzione inglese, marca The Acme Referee) che tiene nel taschino sinistro, appeso alla spalla con un cordoncino giallo e rosso.
I partigiani, finiti i feriti gravi, fanno sfilare i superstiti in mezzo alla folla, fra percosse e sputi.
Alla sera il marò scampato alla cattura nascondendosi nel campanile, scende e dà l'allarme.
Immediatamente, il Barbarigo viene trasferito da Viverone ad Ivrea.
La mattina successiva, un reparto entra ad Ozegna: i corpi dei caduti, ad esclusione di quelli di Bardelli e Grosso, sono allineati nella piazza.
Alcuni sono stato coperti di sterco, e recano tracce di violenza.
Le salme di Bardelli e di Grosso sono state raccolte dalle suore di un vicino Istituto Religioso, portate nella loro chiesetta, e lì composte in qualche modo.
Le religiose hanno anche prestato assistenza ed accolto i feriti.
Nei giorni seguenti i prigionieri della Decima saranno scambiati, e il 4 settembre successivo il disertore Oneto finirà fucilato da un plotone misto di partigiani e decumani.
Fin qui l'episodio, ma quanto di fondamentale è accaduto ad Ozegna, ossia il tentativo di dialogo della Decima strumentalizzato e ritorto contro i suoi stessi uomini, ha convinto Borghese che la linea della "coesistenza" non può più continuare.
La Decima si difenderà attivamente contro chiunque cerchi di attaccarla.
Sorprendentemente, la stagione del dialogo non si chiude così; accordi tentati ed in parecchi casi raggiunti permetteranno di salvare numerose vite di ambo le parti.
Il tentativo più clamoroso sarà lo sfondo per un'altra lugubre tragedia in quell'Italia corrosa d'odio: la strage della malga di Porzus.

Marino Perissinotto

 

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