Ultimo Urlo - Inviato da: Panzerfaust - Sabato, 02 Gennaio 2010 15:56
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La battaglia di Tarnova

 .: La battaglia di Tarnova - di M. Perissinotto

 

Tarnova della Selva (Trnovo) è un paesino posto al centro dell’altipiano omonimo, sulla strada che attraverso la Sella di Dol da Gorizia, aggirando i monti San Michele e San Gabriele, arriva alla stazione turistica invernale di Loqua (Lokva). L’intero altipiano, dal rilievo accidentato solcato da poche strade inserite in una boscaglia fitta ed ancor oggi malamente percorribili, è disabitato ad eccezione di qualche paesino e di poche fattorie isolate. Questa sua conformazione durante le fasi finali della seconda guerra mondiale ne fece, assieme all'attiguo Altopiano della Bainsizza, un "santuario" per le formazioni partigiane dell'Esercito Popolare di Liberazione yugoslavo. La posizione dominante la piana goriziana lo rese inoltre un'ottima base di partenza per operazioni a vasto raggio nella pianura sottostante. Alla fine del 1944 il comando tedesco, conscio del rafforzarsi della presenza partigiana sopra Gorizia, intraprese un'operazione offensiva, l'Adler Aktion, allo scopo di accerchiare ed eliminare le unità slave degli altopiani. Oltre a truppe tedesche ed ai vari reparti slavi filo-tedeschi, un ruolo di primo piano vi venne assegnato ai battaglioni italiani di fanteria di marina della Decima MAS Sagittario Barbarigo, Lupo, appoggiati dai gruppi d'artiglieria San Giorgio ed Alberico da Giussano e da parte dei battaglioni Nuotatori Paracadutisti, guastatori Valanga, genio Freccia. L'Adier Aktion ottenne un risultato solo parziale: non allontanò le formazioni partigiane dal tarnovano, ma ne rese difficoltosi i collegamenti ed i rifornimenti. Nei primi giorni del gennaio 1945 venne intrapresa dalle forze dell'Asse la creazione di presidi dentro il "santuario". Uno di questi, il più interno ed isolato, fu Tarnova, affidata ai marò della Decima.

 

Il comando tedesco in questo ciclo operativo assegnò la maggior parte dei compiti rischiosi alla Decima, riservando alle varie unità slave filo tedesche ruoli con minor rischio. Peraltro, mentre gli italiani attuarono le disposizioni avute, lo stesso non avvenne per i vari cetnici, domobranzi ed ustascia.

Il paese era stato raggiunto e presidiato dal Sagittario durante l'Adier Aktion, il 21 dicembre 1944. All'inizio di gennaio vennero a dargli in cambio la prima compagnia del Valanga ed una batteria di obici da 75/13 del San Giorgio, per un totale di circa 200 uomini. Dal paesetto vennero continuamente irradiate pattuglie per simulare la presenza di un ben maggiore contingente di difensori. Il 7 gennaio, in seguito alla segnalazione d'una possibile azione offensiva, vi si aggiunse anche il Barbarigo. L'attacco, previsto per il giorno successivo, non si verificò, pur se le pattuglie riscontrarono una accresciuta attività avversaria a testimonianza della preparazione di operazioni militari di rilievo. Il Barbarigo ritornò quindi a Gorizia. Il 9 gennaio gli uomini del Valanga e del San Giorgio vennero a loro volta sostituiti da quelli del battaglione Fulmine.

Il battaglione Fulmine si articolava su:
- compagnia comando
- la compagnia, su tre plotoni fucilieri; oltre alle armi individuali erano in dotazione fucili mitragliatori Breda 30, 4 mitragliatrici Breda 37, 4 mortai Brixia da 45 mm.
- 2a compagnia, su tre plotoni; oltre alle armi individuali erano in dotazione 2 fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37, 2 fucili anticarro Solothurn da 20 mm, 4 mortai Brixia da 45 mm, 3 mortai Cemsa da 8l mm
- 3a compagnia "Volontari di Francia", formata da volontari figli di italiani emigrati oltralpe; fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37, mortai Brixia da 45 mm.
L'organico totale assommava a 214 uomini; comandante ad interim era il t.v. Eleo Bini, essendo il comandante effettivo Giuseppe Orrù ricoverato in ospedale per alcune ferite riportate in combattimento. L'età dei volontari era mediamente inferiore ai vent'anni, ma non mancavano tra di loro dei veterani.
L'armamento individuale era composto principalmente da mitra Beretta MAB 33, da fucili 91 e da pistole Beretta mod. 34, ma non mancavano altre armi catturate o ricuperate. Non tulle le armi d'accompagnamento in dotazione al battaglione vennero portate a Tarnova.
La forza delle compagnie a Tarnova era la seguente:
la compagnia tot. 7l
2a compagnia tot. 61
3a compagnia tot. 82
Totale 214 uomini

Il IX Corpus, responsabile di quel settore per l'Esercito Popolare di Liberazione Yugoslavo, decise nel frattempo di intraprendere un'operazione destinata ad annientare il presidio, circondandolo ed assalendolo dopo aver disposto sue unità ad ogni via d'accesso dei possibili rinforzi.

Nelle operazioni di supporto alla brigata “Kosovel” vennero impiegate:
30a divisione jugoslava: 17a SNOB (brigata slovena di liberazione nazionale) "Simon Gregorcic" 18a SNOUB (brigata d'assalto slovena di liberazione nazionale) "Basovitzka" divisione italiana "Garibaldi Natisone" 156a brigata Bruno Buozzi 157a brigata Guido Piccoli
20a brigata Triestina
3la divisione 3a SNOUB (brigata d'assalto slovena di liberazione nazionale) "Ivan Gradnik" 20 btg. 7a SNOUB (brigata d'assalto slovena di liberazione nazionale) "France Preseren".


La 19a brigata slovena di liberazione nazione "Srechko Kosovel" (comandante militare Tone Bavec- Cene, commissario politico Edo Klemencic) venne incaricata di assalire Tarnova, e per questo fu rinforzata da una compagnia d'assalto, accrescendo inoltre la sua dotazione di armi d'accompagnamento (4 cannoni, 2 fucili anticarro, 2 mortai pesanti, 3 lanciamine partrop).

Uno degli aspetti controversi nella battaglia di Tarnova e' la consistenza delle forze partigiane in campo. Le relazioni d'epoca del Fulmine parlano di un numero d'assalitori variabile da 1.500 a 2.500. La storiografia yugoslava parla di soli 356 attaccanti. Fra gli estremi, si ritiene verosimile la stima data da Nino Arena in "Soli contro tutti" d'un migliaio d'assalitori, il che darebbe ad ogni battaglione un organico di circa 300 uomini e porterebbe il rapporto tra difensori ed attaccanti in uno a cinque.

Nel paese i marò avevano allestito, compatibilmente con le risorse disponibili ed il clima rigidissimo, delle opere difensive. Una cerchia esterna di postazioni protette, basata su dodici caposaldi appoggiati da buche e protetti da qualche barriera di filo spinato e da mine antiuomo, si stendeva attorno all'abitato.

Queste postazioni vengono definite bunker da entrambi i contendenti. In realtà, come mostrano le foto, si trattava di ricoveri alzati con muratura e secco e sacchi di sabbia, col tetto di lamiera ed assi. In grado di fornire riparo al tiro di fucileria, questi ripari non resistevano alle cariche esplosive, carenza questa importante per la sorte di Tamova.

Alcune case erano state poi trasformate, sempre con mezzi di fortuna, in caposaldi. L'equipaggiamento delle due forze contendenti era inadatto al clima. I marò della Decima Indossavano la divisa di panno, e cercavano di difendersi dal freddo con le tute mimetiche policrome od i cappottoni grigioverdi che li facevano risaltare sul bianco del terreno innevato. Molti alzavano sopra la testa, a mo' di passamontagna, il collo del maglione caratteristico delle fanterie di marina della RSI.

La brigata Kosovel nel tardo pomeriggio dell’ 8 gennaio, con una temperatura inferiore ai -10°, lasciò Otlica ed alliaverso Mala Strana a notte fonda giunse attorno a Tarnova. Il piano operativo slavo fu il seguente: - il 1° battaglione, comandato da Anrej Renar, dopo essersi diviso in due colonne, si sarebbe disposto a nord est dell'abitato, laddove i boschi più vicini alle prime abitazioni fornivano una migliore copertura. Da qui la prima colonna avrebbe attaccato seguendo la direttrice della strada proveniente da Casale Nemci, la seconda di quella proveniente da Rijavci. Il battaglione avrebbe dovuto conquistare i bunker 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8; perciò gli venne accresciuta la dotazione di armi d'accompagnamento, dotandolo di due cannoni da 47/32 e due da 20 mm, di mortai da 81, di due Partrop e di un PIAT.

La numerazione dei bunker è desunta dal resoconto yugoslavo dei combattimenti, e risale alle informazioni sulla difesa di Tarnova allora a disposizione della brigata Kossovel. Secondo fonti italiane, i bunker erano solo cinque. Dato l'uso estensivo del termine bunker, descritto nella nota precedente, qui si devono intendere come posizioni protette. Il Partrop era un'arma di concezione partigiana basata sui lanciarazzi portatili tedeschi. Il proiettile sferico carico d'esplosivo raggiungeva la distanza di 150 - 200 metri. Il PIAT (Proiector Infantry Anti Tank) era un’ arma controcarro inglese, in cui il proiettile era lanciato contro il bersaglio da una molla.

Le armi d'appoggio, grazie allo schermo dato dalla vegetazione e dalla foschia, furono appostate a circa 300 metri dalla linea difensiva italiana. - il 2° battaglione avrebbe attaccato da sud, avendo quali primi obbiettivi i bunker 9, 10 ed 11. Avrebbe assieme impedito eventuali tentativi di sganciamento italiani verso Gorizia. - 3° battaglione sarebbe rimasto di riserva nei boschi a nord ovest del paese; solo un suo plotone sarebbe entrato subito in azione eliminando il bunker n. 1, costruito in posizione isolata presso quota 813. Da parte italiana, la prima compagnia difendeva la parte nord - orientale dell'abitato, la seconda quella nord - occidentale, e la terza "Volontari di Francia" quella meridionale. Le forze partigiane presero posizione attorno a Tarnova mentre il paese era battuto da un vento freddo, che però non riusciva a spazzare dagli avvallamenti del terreno una caligine fastidiosa. Alle 5.50 del mattino le armi della brigata Kossovel aprirono il fuoco sulle postazioni italiane, mentre i suoi elementi di punta muovevano in avanti.

La ricostruzione slava degli eventi fissa l'inizio delle operazioni alle 03.30; le fonti italiane alle 5.5 0, salvo una che parla delle 4.00.

La reazione italiana, pronta e decisa, fermò il primo assalto. Il proiettile d'un mortaio Brixia da 45 mm della prima compagnia del Fulmine, esploso a ridosso delle postazioni per le armi d'appoggio del primo battaglione slavo, raggiunse un deposito improvvisato d'esplosivo, uccidendo o ferendo parte dei serventi. Gli assaltatori scoprirono che il tiro italiano giungeva anche da una serie di postazioni di postazioni minori vicine ai bunker, non individuate dai loro informatori. Le forze partigiane si lanciarono in un secondo assalto, che non ebbe miglior sorte del primo. La reazione italiana consentì al Fulmine di riprendere possesso di qualche posizione temporaneamente abbandonata. Si cominciò a capire la portata dell'azione avversaria, rilevandone altresì la direttrice principale d'assalto a nord - est, da dove giungeva il maggior volume di fuoco. Alle 7.00 del mattino, quando la prima luce consentì di regolare il tiro con precisione, i cannoni slavi aggiunsero i loro proiettili a quelli delle armi leggere. L'accresciuto fuoco d'appoggio permise agli assalitori di portarsi nuovamente in avanti, conseguendo i primi successi. Venne espugnato un bunker sul lato nord e quindi caddero anche il n° 6 ed il n° 7.

Probabilmente il bunker n°1, il più isolato del sistema difensivo. La conquista avvenne ad opera di un plotone del terzo battaglione.

Gli italiani si ritirarono nelle case vicine, da dove continuarono il combattimento bloccando il progresso degli attaccanti. In quella fase dello scontro, la seconda compagnia subì la perdita di due dei suoi ufficiali: alle sette venne mortalmente ferito il comandante G.M. Giovagnorio e poco più tardi una pallottola esplosiva dilaniò il G.M. Giombini. Alle 11.30, il nucleo di operatori radio del Battaglione Freccia distaccato presso il Fulmine riuscì a collegarsi col comando di divisione a Gorizia ed a informarlo della situazione in atto, chiedendo soccorsi.

Si trattava di quattro operatori. Nelle fasi finali del combattimento continuarono il loro compito sino al sopraggiungere degli slavi nella casa da loro occupata. Quindi si trattennero per distruggere gli apparati ed i codici, venendo infine catturati ed immediatamente passati per le armi. Il loro comandante, s.c. Rizzo, sopravvisse pur colpito da un colpo di pistola al capo.

Nel frattempo, dalle postazioni partigiane continuò incessante il tiro delle armi individuali, dei lanciarazzi e dei cannoni sugli italiani. Nel pomeriggio giunse un altro successo per gli uomini del 1° battaglione della Kossovel: il bunker n° 5 fu smantellato dai tiri di un PIAT, ed espugnato. Verso le 15.00 da parte italiana si riscontrò un calo d'intensità nel fuoco nemico. L'artiglieria avversaria era infatti ridotta quasi al silenzio: i due cannoni automatici cal. 20 ed uno dei pezzi da 47 s'erano guastati in modo irreparabile, l'altro aveva ancora pochi colpi a disposizione. Le forze slave potevano contare ancora sulle armi rivelatesi più efficaci contro i bunker ed i caposaldi del Fulmine: i PIAT, i Partrop ed i mortai. Con l'oscurità calò una fitta nebbia; iniziò a nevicare. Le forze partigiane sospesero gli attacchi, ma continuarono l'accerchiamento dell'abitato, le azioni di disturbo, la sorveglianza d'ogni movimento degli assedianti. Alle 21.00 una pattuglia di 3 marò del Fulmine, uscita per eliminare un centro di fuoco nemico contando su un rilassamento della guardia avversaria, fu subito individuata e bloccata dall'intenso tiro avversario. Il Fulmine nel primo giorno di battaglia contò 12 morti (2 ufficiali e dieci fra sottufficiali e marò), e 25 feriti (2 ufficiali e 23 tra graduati e marò). L'azione offensiva della brigata Kossovel si esercitò soprattutto sulla prima e seconda compagnia; la terza "Volontari di Francia" patì un tiro continuo di armi automatiche e un susseguirsi d'azioni di disturbo avversarie. La situazione al chiudersi della prima giornata di combattimenti era di sostanziale parità. Nonostante la conquista di alcune postazioni esterne italiane, il sistema difensivo del Fulmine era ancora efficiente ed i marò non davano alcun segno di cedimento. Gli assediati cominciavano però a scarseggiare di munizioni, e da parecchi giorni il caposaldo isolato non riceveva viveri.

Le operazioni di soccorso al Fulmine presero il via nel pomeriggio dell’ 19; la principale di esse, cui partecipavano tutti i reparti della Decima, partì da Gorizia nella serata. Il dispositivo di sicurezza partigiano collocato attorno all'altipiano bloccò comunque il progresso delle colonne sino al mattino del 21, dopo che una serie di attacchi ebbe eliminato i caposaldi avversari. Sul ritardo dei soccorsi influì anche l'atteggiamento del comando tedesco, che autorizzò l’intervento solo dopo una giornata di combattimento.

La notte iniziò a trascorrere fra un continuo lancio di razzi e segnali luminosi da parte slava. Nonostante queste misure di sicurezza, nel cuore della notte il Fulmine contrattaccò e respinse dal bordo orientale del perimetro le punte avanzate degli assedianti, riprendendo il controllo dei bunker n0 6 e 7. L'improvvisa azione italiana scatenò alle 04.30 un ulteriore attacco del l° battaglione Kosovel. Dopo due ore, alle 6.30 del 20 gennaio il bunker 6 cadde nuovamente in mani partigiane e venne distrutto. Poco dopo, anche il n0 7 venne smantellato; gli assaltatori slavi riuscirono ad impossessarsi anche delle case vicine. La breccia nelle linee esterne determinò l'ìnizio della crisi per gli italiani. Più tardi nella mattinata anche i bunker n0 3 e 4 finirono presi dagli attaccanti. La loro perdita costrinse il Fulmine ad arretrare la linea difensiva settentrionale sino all'abitato. Da parte slava si giudicò prossimo il tracollo dei difensori, e si decise di compiere lo sforzo finale. Il 3° battaglione, di riserva nel bosco a nord-ovest di Tarnova, ricevette così l'ordine d'attacco. Il comando partigiano aveva sottovalutato la caparbia volontà dei marò: un intenso fuoco dalle case ai margini occidentali del paese riuscì ad infrangere lo slancio dei due battaglioni slavi.

Più che a combattere sembriamo decisi a morire perchè ci sentiamo i soldati dell'onore. Vogliamo dimostrare ai paesi d'oltre Alpe che hanno detto: "Gli italiani non sanno combattere" che si sono sbagliati di gran lunga. Questo ha scritto un marò della II compagnia.

 

Giunse così il pomeriggio del 20 gennaio. Il comando partigiano decise di investire massicciamente tutto il perimetro, e fece avanzare anche il 2° battaglione. L'intera linea difensiva fu quindi investita da assalti tesi ad aggirare le postazioni, ad infiltrarsi fra abitazione ed abitazione, ad isolare i nuclei di resistenza, a sopraffarli con l’uso di esplosivo. Al crepuscolo il 2° battaglione riuscì a catturare il bunker n. 11, ma il fuoco rabbioso dei “Volontari di Francia” dalle case a sud dell'abitato gli impedì di progredire nell’assalto. Calò la sera: il 1°battaglione, che aveva tatto arretrare i difensori fino all’abitato andò in supporto al 2°, ed attaccò da est, sul fianco sinistro, il settore' della terza compagnia. Riuscì a conquistare i bunker 8 e 9, i cui difensori si rinserrarono nell'osteria del paese. li comandante Bini a questo punto si trovò costretto ad una decisione. Il mancato arrivo dei rinforzi, l'esaurirsi delle munizioni, il progressivo avanzare degli slavi, la disgregazione delle linee difensive, ed infine l'autorizzazione a ritirarsi preventivamente trasmessa via radio dal Comando di Divisione, lo convinsero ad ordinare l'abbandono del paese per salvare i superstiti del battaglione. La manovra comportò un alto prezzo: l'abbandono dei feriti gravi. Quanti erano ancora incolumi, ed i feriti in grado di camminare, abbandonando le postazioni, si sarebbero concentrati presso il Comando di Battaglione; la colonna così formata avrebbe cercato di sfondare l'accerchiamento, dirigendosi verso Gorizia. Così alle ore 20.00 cominciò a venire diramato l'ordine di rendere inutilizzabili le armi pesanti e di concentrarsi entro le 24.00 al comando di battaglione. La comunicazione di questa disposizione avvenne comunque in modo fortunoso, poichè l'unico mezzo a disposizione era costituito dalle staffette, che raggiungevano i caposaldi sgusciando fra gli attaccanti. Alcune postazioni ricevettero la disposizione solo attorno alle 23.30. Ad altre non riuscì a pervenire. il combattimento si concentrò nella parte meridionale dell'abitato, dove ancora resistevano due bunker ed alcune case. Gli italiani, asserragliati nelle abitazioni, esaurite munizioni e bombe a mano usavano dell'esplosivo per improvvisare ordigni con cui resistere alla pressione nemica. Di quando in quando il fuoco cessava ed arrivavano degli inviti alla resa.

A fare queste proposte erano anche degli italiani combattenti con gli slavi. Ad uno di essi fu risposto in buon toscano : “Tu se’ di Pisa? O dimmi, in quale angiporto si è fatta sbattere la tu’ mamma per mettere al mondo un bastardo come te?”.

Verso le 23 alle voci dei Partigiani s'aggiunse anche quella di un marò catturato, Lucon. Le sue esortazioni dirette al comandante Bini scossero quanti ebbero l'occasione di sentirne la voce. Intanto, lentamente, l'avanzata slava progredì. Il 2° battaglione espugnò il bunker n0 12, e verso mezzanotte cadde l'ultima postazione protetta, la n0 10. Resistevano quattro caposaldi: uno era il comando di battaglione, dove si era adunato il grosso dei superstiti. Alle 2.30 del 21 gennaio la colonna del Fulmine mosse verso ovest. Gli uomini s'erano improvvisati delle tute mimetiche con le lenzuola degli abitanti. Per aprirsi la strada verso sud - ovest, i marò dovettero annientare a colpi di bombe a mano (sei Balilla italiane legate attorno ad una M24 tedesca) uno dei bunker, in cui s'erano insediati dei partigiani con una mitragliatrice MG 42. Il compito venne assolto dagli uomini della 3a cornpagnia. Un gruppo in ritirata, al comando del T. C. Stefano Balassa, venne individuato e posto sotto tiro da parte dei nemici. Costretti a ripiegare, i marò tornarono verso il paese e si trincerarono in una casa Vicino a loro, chiusi in un'altra abitazione, resistevano alcuni superstiti agli ordini del G.M. Minervini. Già circondati ed isolati quando venne impartito l'ordine di ripiegamento, non lo ricevettero e continuarono quindi a resistere ad oltranza. I reparti partigiani si resero conto di essere padroni di quanto rimaneva di Tarnova. Posti dei reparti attorno agli ultimi nuclei di resistenza, gli uomini della Kossovel saccheggiarono il paese e si ritirarono senza tentare di inseguire la colonna in ritirata.

Secondo la relazione slava, il bottino fu d'un mortaio da 81, due mortai Brixia, una mitragliatrice Breda 37, tre fucili mitragliatori Breda 30, tre mitra, ventiquattro fucili, quattro pistole, una stazione radio, un camion.

Entrarono nell'infermeria, improvvisata all'interno d'una abitazione e presero ad ammazzare i feriti. Qualcuno fra di loro si salvò perchè riuscì a nascondersi, o venne creduto morto.

Il S.C. Dante Mantini della 2a Compagnia, ricoverato in infermeria per una scheggia che l'aveva colpito al ginocchio, si salvò calandosi con l'aiuto d'un altro ferito dentro un cassone pieno di patate.

I partigiani uccisero anche alcuni abitanti del paese, ed incendiarono delle case. Fra gli italiani, qualcuno al precipitare della situazione s'era suicidato per non cadere in mano nemica; fu il caso del G.M. Roberto Valbusa della III Compagnia.

Roberto Valbusa, comandante del plotone mitraglieri della 3a Compagnia, rimase volontariamente nell'abitato con otto marò, per coprire combattendo il ripiegamento della colonna. Quando stavano a loro volta per sganciarsi, furono circondati dalle forze slave. Dalla colonna si udirono le invocazioni d'aiuto in lingua francese d'uno dei marò, Domenico Verrando. La sua voce si spense bruscamente, strozzata. I corpi degli otto marò non trono mai ritrovati. L'ufficiale, che aveva già combattuto nei Balcani con il Regio Esercito, quando capì di non avere più speranza si sparò con la propria pistola per non cadere vivo nelle mani dello spietato nemico.

La colonna del Fulmine in ritirata il mattino successivo giunse a contatto con reparti tedeschi. Poco dopo, un autocarro del Comando Divisione raccolse i superstiti del battaglione, riportandoli a Gorizia. Quasi contemporaneamente, una colonna germanica proveniente da Sanbasso raggiunse Tarnova. Il paese era stato abbandonato in fretta dai partigiani I caposaldi dei G.M. Minervini e Balassa avevano combattuto tutta la notte senza arrendersi, e stavano ancora resistendo. La battaglia di Tarnova finì così. Il Fulmine ebbe 50 morti e 42 feriti.

Fra i feriti ci fu anche il marò Benito Lorenzi, che come calciatore dell'Inter si guadagnò il soprannome di Veleno.

Gli attaccanti della brigata Kossovel dichiararono di aver avuto 33 morti e 71 feriti. La battaglia di Tarnova può motivare interpretazioni e valutazioni differenti, soprattutto se la si veda quale fatto a se stante e non nel complesso delle operazioni di controguerriglia. Non fu un evento isolato; quando se ne presentò l'occasione, come a Chiapovano, a Casale Nemci ed a Tribussa, le forze partigiane cercarono di accerchiare ed annientare i reparti avversari, ottenendo col rapido ridispiegamento dei reparti la superiorità tattica. Nessuno di questi fatti d'arme consegui il risultato voluto, permettendo al IX Corpus di riguadagnare il controllo del suo "santuario". Tarnova fù uno scontro particolarmente sanguinoso per la determinazione ed il coraggio con cui assalitori e difensori si confrontarono. Valgano a riguardo le parole di uno storico partigiano: "Si è in genere dell'opinione che gli Italiani come soldati fossero meno validi dei Tedeschi. In questo caso ciò non corrisponde al vero. In quei due giorni di combattimento i fascisti italiani a Trnovo (Tarnova della Selva) mostrarono una forte tenacia." Stanko Petelin.

Marino Perissinotto (vedi bibliografia -5-)


 

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